Memorie di una bambina dell’Umanitaria
Mi chiamo Giuseppina Bertuzzi detta Pinuccia, sono nata il1/9/1926 presso la Clinica Mangiagalli, di 4 kg, la mia famiglia abitava in via Pace n. 2 case dell’Umanitaria, poi bombardata nell’agosto del 1943.
I miei primi ricordi, attraverso i racconti di famiglia, risalgono a quando avevo circa tre anni ( 1929/30 ).
Mussolini venne ad inaugurare uno stabile in via Manfredo Fanti.
Mio papà antifascista da sempre e segnalato alla polizia, ogni volta che Mussolini veniva a Milano, per motivi di ordine pubblico, veniva fermato e tenuto in camera di sicurezza nel commissariato d i via Curtatone.
La polizia in queste occasioni procedeva anche alla perquisizione della nostra casa.
Il mio papà da ex sindacalista delle officine Silvestri Meani, poi divenute OM, operaio lucidatore dei sedili allora di legno, posto perso per i suoi orientamenti politici, riceveva l’Avanti clandestino, organo del partito socialista.
La mamma, secondo le leggende metropolitane di allora, che asserivano che il petrolio della stampa tenesse lontane le tarme, aveva tappezzato i cassetti dei mobili con fogli del giornale.
Durante le perquisizione la polizia rinvenne i giornali, ma fortunatamente dai cassetti emerse anche un soprammobile di lava dell’Etna, ricordo del matrimonio, con al centro l’effige del Re Vittorio Emanuele.
La cosa sconcertò i poliziotti e allora la mamma, con prontezza di spirito, salvò la situazione dicendo “ magari il Duce no ma il Re?
Intanto il nonno materno che era sempre stato contrario al matrimonio della figlia con il mio papà che definiva un sovversivo, in queste occasioni veniva a trovarci e a sottrarre me, più piccola delle altre sorelle, dalla situazione.
Quel giorno mi portò ai giardinetti dell’Umanitaria e si fermò incuriosito ad osservare la cerimonia di inaugurazione e per farmi guardare, vista la mia piccola statura, mi spingeva in avanti.
Giunsi così nella vicinanze del Duce che impettito era intento alla cerimonia, nel vedermi, bimbetta paffuta e piccolina, in un moto di simpatia, mi prese tra le braccia.
L’evento fu documentato fotograficamente e la foto fu pubblicata sul Popoli d’Italia. ( documento non più in mio possesso ).
Qualche giorno, mio papà, rilasciato e informato del fatto, si affaccendò con impegno, mia madre diceva con ironia con il bruschino, per pulirmi da quel contatto.
L’Ambiente della mia infanzia.
Allo scivolo di via Pace era l’ingresso del n. 2 poi c’era il n.4, il n. 48 di via S. Barnaba, sulla destra del 2 c’era un lattaio, sulla sinistra un barbiere, di fianco al lattaio il Ben di Dio, trattoria, poi il prestinaio , l’ortolano che era anche un poliziotto che prestava servizio in via Curtatone sede del Commissariato di zona, quindi il salumiere era d’angolo con una vetrina su via S. Barnaba, poi il Gigi della ghiaccia ( castagnaccio ) che vendeva anche il pesce con la polenta.
La Prima Comunione.
Il vestito fu confezionato dalle suore francesi ( così chiamate ) che vivevano in clausura nell’attuale chiostro dei Cavalieri del Santo Sepolcro .
Da bambine, la mamma non voleva che stessimo in strada e ci accompagnava a giocare nei giardini del convento e mi ricordo che durante il pomeriggio le suore ci davano anche la merendina a base di cioccolato.
Durante queste frequentazioni ero stata prese a ben volere con il risultato che mi guadagnai un vestito di pizzo di Sangallo per la Prima comunione che fu celebrata presso la chiesa della Passione in via Conservatorio.
L’anno della svolta: 1936
Come tutti gli anni, a Natale il parroco venne per la benedizione, il mio papà mal sopportava per le sue convinzioni politiche, ma sopportava per il quieto vivere famigliare, quella volta, però aggredì verbalmente il prete, denunciando lo stato precario della famiglia, mancando egli di un lavoro fisso poiché non aveva la tessera fascista.
Il prete propose un incontro i parrocchia e offrì al mio papà l’incarico di distribuire le sedie e riscuotere l’obolo durante le funzioni, dietro un piccolo compenso. Non era molto ma meglio di niente.
Accadde poi che dopo qualche anno, durante una funzione il parroco dal pulpito facesse una predica sulla carità cristiana; il mio papà si indispose a tal punto che avendo in mano un sedia la sbattè con forza per terra e ponendosi con fare minaccioso e con la sua voce possente si rivolse al predicatore, chiedendogli se fosse quella che lui stava vivendo, la carità cristiana di cui si parlava.
Io e la mia sorella, presenti in chiesa, rimanemmo sconcertate, per la veemenza e per le possibili conseguenze, essendo la chiesa piena, anche, di fascisti.
La cosa invece si risolse con l’intervento dell’ing. Giambelli, un imprenditore che era socio del Palazzo del Ghiaccio, egli calmò il mio papà e lo condusse in sacrestia, proponendogli un lavoro presso il Palazzo del Ghiaccio.
Da quel momento la situazione della famiglia cambiò in modo sostanziale.
L’impiego presso il palazzo del ghiaccio coincise con un altro episodio fortunato, la disponibilità di un portierato presso lo stabile di via Andreani n.6 dove però per regolamento i portieri non potevano avere più di un figlio.
Questo fatto determinò la seguente situazione: la mia mamma assunta quale titolare della portineria con vice chi racconta, ma non domiciliata, il mio papà e il mio fratello più piccolo residenti in via Andreani;
Io e mia sorella maggiore rimaste sole in via Pace.
Questo accadi8mento fu motivo di un ulteriore trasferimento, poiché fu chiesto ai nonni materni che erano sfollati in Veneto essendo intanto scoppiata la guerra, di spostarsi da via Bessarione dove abitavano a via Pace per tenere compagnia alle nipoti rimaste sole, occasione per riavvicinarsi anche alle altre figlie, sorelle della mia mamma che abitavano tutte nelle case dell’Umanitaria.
Il trasloco di masserie e mobili, in assenza dei nonni, fu eseguito dai generi, per la precisione mio papà e il fratello che aveva sposato una sorella di mia mamma.
La beffa fu che dal marzo 1943 quando fu assunta la decisione ad agosto dello stesso anno, i nonni mai abitarono in via Pace, ma nell’agosto 43 le case dell’Umanitaria furono rase al suolo da un bombardamento americano.
Effetto collaterale, ( allora non vi erano le bombe intelligenti! Sic! ), quelle bombe erano destinate alla struttura militare, attualmente sede dei Carabinieri e che allora ospitava la cavalleria ( carri armati ).
Persa la casa io e mia sorella un solaio nella casa dell’architetto Ferrini in via Andreani
Anche questa si rivelò una fortunata coincidenza, infatti che allora lavoravo presso i magazzini di un’azienda che produceva i bicchierini di carta per i gelati di Motta e Alemagna.
La ditta per motivi di sicurezza si trasferì a Porto Ceresio ed io rimasi disoccupata.
Poiché ero la sostituta di mia madre nella portineria, come ho detto, una volta che ero in guardiola, un condomino, rag. Fumagalli mi propose un impiego da archivista nello studio dell’avv. Answacher con il quale collaborava.
Io e lo sport.
Non sono mai stata una bambina tranquilla e da adulta non sono cambiata.
I miei genitori dovevano stare molto attenti alle mie iniziative.
Lo sport mi ha sempre affascinato ed ogni occasione era buona per mettermi alla prova.
Così quando mio padre ebbe l’impiego al Palazzo del Ghiaccio non persi l’occasione per imparare a pattinare.
In quel periodo il mio papà per arrotondare prestava servizio al botteghino degli ingressi.
Dopo varie insistenze riuscii a convincerlo a lasciarmi noleggiare i pattini e cominciai ad imparare.
Dapprima non conoscevo nessuno ed ero u n po’ isolata, ma col tempo feci molte amicizie ed imparai discretamente, tanto da avventurarmi in un esercizio riservato ai molto esperti.
Alla fine di ogni ora suonava negli ultimi 5 minuti la campana, era il segnale che concedeva ai più bravi di andare a grande velocità, scatenando una sorta di carosello e diceva ai meno esperti di uscire per non correre rischi.
In quell’occasione, io rimasi in pista per cimentarmi, sicura di non essere controllata, al contrario il mio papà mi teneva d’occhi e all’improvviso la sua voce tonante mi raggiunse e raggelò: “ Pinuccia “ , la sorpresa mi fece perdere il controllo e caddi seduta di peso, battendo l’osso sacro, ma rischiando di farmi ancora più male, in quanto avendo poggiato la mano aperta per terra, per ripararmi dalla caduta, rischiai di avere le dita tranciate dal pattinatore che era dietro di me e che fu bravo e pronto a saltare l’ostacolo rappresentato dal mio corpo quasi disteso sulla pista.
Anche andare in bici mi piaceva molto, ma come detto la mia famiglia non si poteva permettere l’acquisto di un velocipede come allora si diceva, così io prendevo una bici da corsa di un mio compagno di giochi, anche troppo grande per me e mi ricordo che il nostro velodromo era rappresentato dal circuito che si poteva realizzare correndo intorno al Palazzo di Giustizia.
Palazzo di Giustizia che ho visto costruire dalle fondamenta, infatti la costruzione cominciò nel 1932.
Ricordo con precisione la data perché è legata ad u n altro episodio indelebile dalla mia memoria .
Io e mia sorella eravamo state inviate in Liguria, per cambiare l’aria poiché il mio papà si era ammalato di pleurite, in una colonia estiva che svolgeva compito di residenza per questi casi.
La mia sorella non resistette e costrinse la mamma, con i trasporti di allora a sobbarcarsi per venire a prenderla e riportarla a Milano.
Io con il mio carattere da maschiaccio mi adattai subito, anzi stavo bene e frequentai tutto l’anno scolastico la prima elementare presso l’Istituto Santa Corona di Pietra Ligure.
La sorpresa fu che al mio ritorno a Milano, l’anno successivo non mi fu consentito l’accesso alla seconda elementare, con la motivazione che la frequenza nella scuola ligure non era riconosciuta, così forse sono tra le poche che hanno iniziato la carriera scolastica ripetendo la prima elementare.